Banda della Scuola Popolare di Musica di Testaccio

L'infaticabile ricercatrice di fantasia popolare

Alla vigilia del concerto per il suo nuovo album, il 3 aprile 2017 all’auditorium Parco della Musica di Roma, Giovanna Marini dialoga con il presidente della Banda della Scuola popolare di musica di Testaccio con cui, insieme al Coro, ha realizzato il suo ultimo capolavoro.

di Simone Masi, 1 aprile 2017

Giovanna Marini ha appena compiuto ottant’anni. Ma nel suo lavoro di musicista, studiosa, insegnante è infaticabile. Si è diplomata in chitarra classica ma poi ha scoperto la potenza del canto e della musica popolare e oggi, oltre ad essere compositrice e cantautrice, rappresenta una delle figure più importanti nello studio, nella ricerca e nell’esecuzione della tradizione musicale popolare italiana. Alla vigilia del concerto di presentazione del suo nuovo album realizzato con il Coro e con la Banda della Scuola Popolare di Musica di Testaccio che si è tenuto il 3 aprile 2017 all’auditorium Parco della Musica di Roma, si concede a una lunga chiacchierata.

Giovanna Marini (foto di Filippo Trojano)

Da trent’anni fai ricerca nella Scuola popolare di musica di Testaccio. Cosa aveva e cosa ha tutt’ora di speciale questa scuola?

Eravamo completamente liberi, si stimolavano gli insegnanti a fare quello che pensavano fosse giusto per la scuola, certo coordinati dal direttivo e dalla commissione didattica, ma liberi. Non avevamo alcuna tradizione da preservare o tramandare, come invece avveniva nei conservatori. La didattica rendeva liberi, era pratica. E questo se era vero per il principiante che veniva da subito messo a suonare insieme agli altri, lo era anche per noi musicisti professionisti. Io avevo e ho tutt’ora un parco di musicisti e di voci che se scrivo un brano, lo cantano, lo eseguono. La grande frustrazione per un compositore è proprio il fatto che lui scrive e non lo suona nessuno!

La scuola nasceva anche per formare un pubblico di ascoltatori, per dare alle persone una capacità critica... non solo per formare musicisti, vero?

Sì, anche perché la scuola non era per soli bambini ma anche per adulti. Abbiamo arginato dal suo inizio la massificazione, l’omogeneizzazione che la logica del profitto, anche nello spettacolo, porta irrimediabilmente con sé. Esaltavamo le diversità, eravamo l’ambiente adatto per far nascere e sviluppare le diversità. E questo attraverso la pratica, che mai veniva disgiunta dalla teoria.

In che modo la cultura, prodotta in un certo modo, può aiutare la vita delle persone? E in cosa la scuola di Testaccio ti ha aiutata a capirlo?

Anche in questo caso è fondamentale il discorso sulla libertà. E della cultura fatta e prodotta insieme agli altri, e soprattutto senza divisioni. Proprio adesso leggo che un bambino autistico non è stato fatto entrare in una scuola. Ma come sarebbe? La scuola deve includere, come avveniva e avviene a Testaccio. Noi siamo pieni di bambini con disabilità di vario tipo.

La scuola, in effetti, è piena di persone per le quali la pratica musicale fatta con gli altri rappresenta un modo per superare proprie difficoltà, o nei casi più gravi, per rendere tali difficoltà compatibili con la vita sociale...

Certamente. E poi se vogliamo parlare specificatamente del mezzo musicale bisogna dire che proprio il suono ha una particolare influenza benefica sull’organismo. Le onde sinusoidali, quelle del suono, aiutano a stare bene perché sono armoniose, son dolci e ti colpiscono il vago simpatico. Quando entrano nel tuo centro nervoso danno una sensazione piacevole... guarda la gente che ascolta una banda, la prima cosa che fa è sorridere!

Entriamo un po’ più nella tua intimità, parliamo del rapporto con i tuoi allievi. Tutti si accorgono che è qualcosa di assolutamente speciale. Tu cosa rappresenti per loro? Più di una ricercatrice e insegnante di musica... che cosa allora?

Mah, probabilmente il fatto che sia stata tra i primi a studiare e a fare ricerca sul canto etnico, in questo senso mi rende un po’ un pioniere. Le persone sentono che insegno cose che ho vissuto in prima persona. Ma se mi chiedi proprio perché si è creato questo rapporto speciale forse è proprio perché non ho mai disgiunto la didattica dalla ricerca. Ancora oggi andiamo per paesini, campagne, alla ricerca di canti, di personaggi autentici, di fantasia popolare. E ci andiamo insieme, in gruppo. Lì si collegano la vita, i racconti che faccio, le avventure e le persone che incontriamo, e loro ci ritrovano tutto. E certo che fa piacere questo, perché - come dire - non sei più schizofrenico, non insegni una cosa che sta per aria ma cala subito tutto per terra, è tutto vissuto, capito? Ancora oggi vengono ogni anno dalla Francia per un seminario che tengo a Testaccio, vengono perché nessuno insegna come faccio io, molto meno “elevatamente”, meno teoricamente, molto più praticamente. È questo che li affascina, capisci? Tutto ciò dagli etnomusicologi è considerato uno scandalo, è uno schiaffo per loro. A parte un paio di loro che mi vogliono bene, gli altri mi detestano (ride).

E passiamo a quest’ultimo nostro lavoro. Quella che raccontiamo nel cd è un’altra storia. La storia dei “deboli”, di chi è estromesso dalla gestione del potere. Anche nella tua ricerca musicale sei attratta dalla cultura popolare, dalla gente cosiddetta “semplice” e di cui evidentemente sei innamorata …

La gente semplice tende a vivere “primariamente”. Come dice un medico che canta nel nostro coro, pensano in modalità “sub-corticale”. Si muovono diretti, per fatti, per azioni. Quello che pensano fanno. È però altrettanto vero che, anche in quest’ultimo lavoro, è presente un continuo travaso tra il mondo popolare e gli intellettuali. E si genera ricchezza proprio quando entrano in contatto questi due mondi, quello colto, che studia, e quello “primario”, che fa. Se nei testi dell’avvocato Pietro Gori c’è l’esperienza concreta delle lotte anarchiche, in alcuni canti popolari si sente l’eco di Giuseppe Verdi.

Sempre nel nuovo album hai cadenzato con delle rime cantate le grandi cesure della nostra storia contemporanea, a mo’ di cantastorie. Però sono note dolenti, in modalità minore: senso di una realtà troppo difficile da cambiare, o rimpianto per idee giuste non realizzate ed ora accantonate?

Entrambe le cose insieme. Sì, mi sento come di fronte al fatto che la realtà ora non possa cambiare. Mi sembra che siamo caduti in una menzogna irreversibile. Hanno iniziato con questo che viene impropriamente chiamato populismo, a cercare il favore del popolo in tutti i modi, arrendendosi a una cultura popolare che tra l’altro non è vera, scegliendo sempre la via più “facile”. Si dà per buono, per giusto, per bello, ciò che non lo è. Come negli spettacoli televisivi, i cosiddetti “talent show”, dove si mettono in bieca competizione le persone tra di loro. E le persone pensano che sia bello, ci credono. Si danno in pasto al popolo solo menzogne, si insegue il comodo sopra e prima di tutto. Così si va avanti con dei surrogati di libertà e non si tocca più la verità. Per questo sono triste.

Ti ho ascoltato addolorarti per la crisi forse irreversibile della sinistra. Ma c’è qualcosa che non andava bene di quella sinistra e che avresti cambiato?

Toglierei l’integralismo. È sempre pericoloso, va sempre corretto, non si può accettare. Non è accettabile. Anche oggi, da qualsiasi parte esso venga, è estremamente pericoloso, fa dei danni culturali terribili ma dà un senso di sicurezza alla gente: “Noi siamo dentro quest’idea e quindi siamo nel giusto”, e invece qualsiasi forma di integralismo va combattuta, per come nasce e per quello che è. Non ci si può stare, capisci?

Tu lavori per intuizione: è finita quest’epoca contemporanea, insomma quella nata con la Rivoluzione francese?

Sì, penso sia finita. C’è una cesura storica data dalla scienza. Dall’utilizzo di tecnologie che aprono nuove possibilità di comunicazione, ne sono convinta.

Che rapporto hai con Silverio Cortesi (maestro della banda)? Tutti e due fate ricerca musicale con persone che non sono musicisti di professione...

Lo facciamo perché siamo entrambi completamente liberi. Silverio nella testa è libero, è una bellissima testa e ci vogliamo bene. L’ho conosciuto che aveva 25 anni, l’ho visto crescere, cercare, andare addirittura in India negli anni 70... la sua, la nostra sete di libertà, ci ha portato anche a rischiare. E tutti e due abbiamo visto che nella scuola di Testaccio c’era qualcosa di essenziale, di vero. E quindi poi, nonostante tutti i limiti che sempre ci sono nelle cose che si fanno, ci siamo sempre stati perché non abbiamo mai perso di vista questa grandezza che c’era sul fondo, di salvare la libertà dell’individuo, nella musica.

In che modo l’arte può cambiare in meglio la storia reale, quella su cui agisce la politica?

L’arte è una modalità di trasmissione di tipo assolutamente non intellettuale. Esce fuori da ogni regola, la rappresentazione pratica e concreta di un moto dell’animo che non ha confini, che è solamente vero. Si serve di tecniche certo, talora migliori talora peggiori come gusto, però arriva. Un Picasso, come un Tintoretto con modalità assolutamente diverse arrivano, perché c’è una verità dentro. Van Gogh ti fa una sedia, e quella ti commuove, e tu non sai perché. Tu ascolti l’allegretto della Settima di Beethoven e quello ti commuove. E non sai perché. È questa la grande verità che c’è nell’arte. Come nel canto contadino, quando ascolto queste persone, con le loro facce e gli strumenti in mano, che si mettono a suonare la loro tarantella mi vengono le lacrime agli occhi, eppure fanno solo “la si mi, la si mi” ... e tu dici ma no, “la si mi” non può fare una cosa così, e invece la fa! C’è qualcosa che passa, che non è controllabile col cervello, che è legata al cervello, ma che è puro istinto, pura verità. Verità legata all’umano.

… e qui, inevitabile, il passaggio alla politica, concreta, di oggi.

Ti racconto un episodio che mi è successo l’altro ieri, stavo a Sant'Elia, quartiere povero di Cagliari, stavamo facendo un concerto e c'era moltissima gente. Cantavamo un pezzo che ho scritto (“Il silenzio”) che parla dei migranti. Si alza un ragazzo devo dire veramente bello, un nero, con un cartoccetto in mano: “Voglio leggere”. E noi lo abbiamo fatto leggere proprio durante il nostro pezzo. Ed è venuta una cosa bellissima, veramente da piangere! Diceva questo: “Perché no, perché tanta rabbia, perché tanta violenza? Noi andiamo, noi siamo i migranti, veniamo solo a migrare, noi veniamo da voi, noi andiamo. Non dovete fermarci. Niente muri, non abbiate paura, noi passiamo”. Proprio bellissimo e c’è stato un entusiasmo generale. Io trovo che quello che stiamo vivendo adesso, la cosa più importante che ci sia mai successa nella vita, è proprio la migrazione. E non ce ne rendiamo conto, non ci fermiamo a parlarne, a pensarci, ad agire di conseguenza. Rifiutiamo, semplicemente rifiutiamo. Ed è una cretinata terribile. Prendiamo i nostri anziani, ad esempio, hanno praticamente rapporti solo con loro, sono diventati il loro mondo. Invece bisogna prendere, prendere... è questa la nostra ricchezza, la nostra salvezza.